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Estrarre valore dalla relazione tra presidente e amministratore delegato: Le società quotate alle prese con la separazione dei ruoli di presidente e CEO devono tenere conto delle dinamiche tra gli individui coinvolti e all’interno del board. Qualunque soluzione scelgano, l’obiettivo finale è gestire la percezione del pubblico e degli investitori

Le imprese quotate sono bersagliate dalle continue richieste di separare i ruoli di presidente e CEO. Le raccomandazioni arrivano, tra l’altro, dal rapporto Higgs in Inghilterra, e sono ormai la prassi in USA e Francia. In Germania, la separazione delle cariche è un obbligo di legge.

I benefici per le aziende starebbero nell’aumento di equilibrio, complementarietà, chiarezza e capacità di previsione. Dotando le aziende di un equilibrio basato sulla separazione dei poteri, similmente al principio costituzionale degli USA dei “check and balances”, che mira ad evitare la concentrazione del potere politico nelle mani di piccoli gruppi.

Inoltre, la separazione dovrebbe migliorare indirettamente le performance, facilitando la relazione con gli investitori e permettendo di attrarre i manager migliori. Ma quando la relazione presidente-AD non funziona, tutto ciò è messo a repentaglio.

Nella pratica, si è osservato che tale relazione dipende in maniera sorprendente dalla personalità degli individui coinvolti. Alcune caratteristiche, in particolare, sarebbero la chiave per il funzionamento del duo di vertice.

Gli ingredienti per una buona relazione

la dinamica tra presidente e CEO funziona se c’è onestà, fiducia reciproca e chiarezza dei rispettivi ruoli. L’onestà si nutre di una comunicazione trasparente tra i due, aperta anche alle critiche. Il CEO, in particolare, dovrebbe comunicare frequentemente con il presidente del consiglio d’amministrazione, segnalando le criticità emergenti e dando la certezza al consiglio di essere sempre in anticipo rispetto ai fenomeni in atto.

Dal canto suo, il presidente dovrebbe fare l’avvocato del diavolo, identificando per tempo le critiche all’operato dell’AD da parte dei diversi stakeholder, e facilitando così un dibattito costruttivo che affronti i problemi sul nascere.

La fiducia si fonda sul credere nelle rispettive abilità. La chiarezza dei ruoli, infine, segna la linea di confine tra responsabilità operative e di supervisione. Il CEO è il capo azienda, ma anche l’esecutore della strategia definita dal board; sta al presidente fare in modo che la strategia venga formulata in maniera corretta e verificata nella sua implementazione. Un binomio ben funzionante è stato alla British Airways tra Lord King e Colin Marshall (oggi Lord anche lui). King, il presidente, era dotato di una grande chiarezza strategica, basata sulla missione di creare “la linea aerea preferita nel mondo”, e fu capace di costruire un rapporto di supervisione e scarsa interferenza con il CEO.

La chiarezza dei ruoli ha un forte impatto sulla comunicazione esterna. Per esempio, il presidente potrebbe essere molto efficace in consiglio ma poco a suo agio di fronte alle telecamere, alle prese con una crisi. Di solito i presidenti sono bravi ad annunciare le buone notizie, ma preferiscono che siano i manager, solitamente i direttori finanziari, ad annunciare quelle cattive. Dipendendo in maniera così diretta da fattori personali, questi dovrebbero essere considerati già nella formalizzazione dei poteri. Non è importante tanto chi fa cosa, quanto l’efficacia delle azioni di ciascuno.

Marks & Spencer è un esempio recente di boicottaggio della comunicazione da parte del board. Un membro non esecutivo ha causato l’abbandono da parte del presidente Paul Myners, nonostante l’apparente sostegno del CEO Stuart Rose. Alla fine un compromesso da fatto sì che il presidente entrante, Terry Burns, attendesse un periodo di non belligeranza per entrare in carica. Per gli azionisti, questo valzer di poltrone è stato fonte di confusione e sfiducia. In particolare, il ritardo nel ricambio, una volta deciso, è stato la mossa peggiore.

I possibili conflitti di personalità e le contromisure

Il problema più frequente nasce quando uno dei due non affronta pubblicamente un problema e non trasmette le sue preoccupazioni in anticipo. In questo caso un problema operativo si trasforma in rischio reputazionale e la fiducia si incrina irrimediabilmente. Per evitare questi problemi, un buon sistema di reporting può aiutare a mediare tra la realtà e l’ottimismo di alcuni CEO, che tenderebbe a nascondere le criticità al board. Anche gli “early warnings” da parte del CEO sono salutari.

Un conflitto tipico si genera per le forti personalità delle figure solitamente coinvolte. I migliori, in questo senso, sono i leader che, pur dotati di una grande visione, sanno ascoltare e adottano uno stile partecipativo e persuasivo. Richard Branson, della Virgin, è tra questi. Bravo a scegliere le persone e a farle lavorare in autonomia.

Uguali ma diversi

Esistono vari schemi di interazione patologica tra presidente e CEO. AD esempio, un presidente forte e risoluto potrebbe trasformare un CEO debole in qualcosa di più simile ad un COO. Ken Morrison, presidente dell’omonimo gruppo di supermercati, è sicuro di non aver nulla da imparare in fatto di retail: presente nei suoi negozi sette giorni su sette, arriva a a controllare la frutta e le luci (oltre a domandarsi sulla ragione dell’esistenza dei consiglieri non esecutivi). Il suo ego non lo aiuta a circondarsi di manager all’altezza. Il risultato lo si è visto nella crisi di fiducia da parte degli investitori al momento dell’acquisto della catena Safeway.

La combinazione opposta (presidente debole e CEO forte) lascia solitamente il consiglio in una posizione ambigua, nella quale spesso, in risposta ai frequenti stalli decisionali e ombre sull’andamento, i membri più forti prendono il sopravvento, magari pubblicamente.

Tralasciando il caso in cui entrambi siano deboli (è la ricetta per il disastro), resta il caso di due immensi ego che si devono confrontare. L’unica via, in questo caso, è la continua comunicazione ed un buon livello di formalismo nella delega. E se proprio non si riesce ad evitare un ruolo unico, come nel caso di Philipp Purcell alla Morgan Stanley (talmente inviso alla prima linea da spingerla a comprare uno spazio sulla stampa per manifestare il proprio disagio), l’unica possibilità è avere un non-executive molto senior che sappia tenergli testa.

Il triangolo del board

In fondo il problema non è mai solo di coppia: il board è il terzo attore che può fare la differenza nell’equilibrio tra i due. Tutti i consiglieri dovrebbero intervenire attivamente nella risoluzione dei conflitti, nella pianificazione della successione e nella selezione del CEO. E, quando proprio non si riesce a separare i ruoli, i consiglieri non esecutivi devono far sentire il proprio peso.

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