Lo scorso marzo il quotidiano francese Les Échos ha pubblicato un breve confronto tra i percorsi di carriera di CFO francesi, tedeschi e inglesi.
L’articolo sottolinea la predominanza, in Germania, di “Finanzvorstände” che sono cresciuti internamente, mentre i colleghi francesi sarebbero ancora molto legati al sistema delle Grandes Écoles, vivai dell’élite del paese, e a trascorsi nella pubblica amministrazione. In Gran Bretagna, la formazione di chartered accountant e la crescita con alcuni cambi d’azienda fortunati è invece la norma.
Sembrerebbe fin troppo in linea con gli stereotipi un mondo in cui i tedeschi sono fedeli e premiati per il duro lavoro, i francesi elitari e gli anglosassoni più meritocratici. Non dovremmo invece, in un mondo globalizzato, assistere ad una convergenza delle prassi di selezione?
Da quando nel 1957 l’INSEAD fu la prima università a proporre l’MBA, molti executive aggiungono al proprio nome questo acronimo. Magari evidenziando il nome della business school, visto il proliferare di corsi master che offrono poco più che un pezzo di carta.
Tuttavia, la crisi del sistema bancario ha portato molti a chiedersi se al vertice delle banche qualcuno, MBA o no, stesse capendo qualcosa senza avere un’esperienza bancaria diretta.
In Francia, ha fatto scalpore la nomina di François Pérol, già capo di gabinetto di Sarkozy, al vertice della banca nata dalla fusione di Caisse d’Épargne e Banques Populaires. Un esempio troppo eclatante di “pantouflage” (termine che indica un funzionario pubblico messo in una posizione comoda in qualche azienda privata).
E’ possibile pensare ad un mondo in cui le carriere dei top manager diventino meno connotate con il contesto locale?
Alcuni prevedono l’arrivo di una nuova classe di “high-flyer”, sul modello di quanto accadde, ad esempio, nell’Est Europa: nell’era delle privatizzazioni post-comuniste, coesistevano due modelli di dirigente: l’establishment, ancora ben saldo nelle ex ex aziende pubbliche, e il nuovo, che seguiva schemi più in linea con gli standard delle multinazionali.
Le fusioni che inevitabilmente accadono tra grandi aziende, anche nell’attuale contesto, portano una maggiore uniformità. Un nuovo modello di CFO “ibrido” sarebbe quindi in arrivo: dotato di un curriculum ineccepibile in quanto a qualifiche, ma più attento alla relazione e agli aspetti politici del contesto in cui opera.
E il CFO di casa nostra? Troppo facile liquidare la questione alla maniera delle barzellette, con l’italiano furbo che sbaraglia la concorrenza. Qui da noi, semmai, il tema è legato alla crescita della piccola-media impresa, e al profilo da “uomo di fiducia con le chiavi della cassa” in contrasto con lo status di CFO che le aziende quotate richiedono. Più la dimensione media delle imprese crescerà, più avremo CFO “esportabili”, in grado di parlare agli analisti, condurre un road show e gestire operazioni complesse.