Qual è il coinvolgimento dei manager in un processo di fusione? Il giuslavorista Claudio Morpurgo risponde all’Executive Search Review.
Quali sono i diritti di un manager quando l’azienda per cui lavora viene ceduta o è coinvolta in un processo di fusione?
Una volta tanto, la legge italiana ed europea è molto chiara sul punto e non si presta a particolari fraintendimenti. Essa, infatti, definisce puntualmente quali sono le conseguenze rispetto al rapporto di lavoro di un cosiddetto trasferimento d’azienda indipendentemente dalla forma giuridica che queste, spesso sofisticate e complesse, operazioni societarie possono, a seconda dei casi, assumere. In sostanza, di fronte ad un mutamento della titolarità dell’azienda (cessione anche parziale, affitto, appalto, fusione, incorporazione, etc.), l’art. 2112 del codice civile prevede espressamente la continuità del rapporto di lavoro in capo al cessionario e la conservazione dei diritti maturati dal dipendente. Il rapporto prosegue, quindi, immutato sotto tutti i profili, ivi compresi quelli retributivi e previdenziali, senza venir condizionato dalla entrata in scena di un nuovo datore di lavoro. La disposizione è molto significativa se si pensa che è configurata anche una responsabilità solidale tra cedente e cessionario in relazione ai crediti dei lavoratori al tempo del trasferimento. Ciò vuole dire che, soprattutto in riferimento alle situazioni di crisi economica che talvolta nascondono dietro apparenti cessioni d’azienda iniziative imprenditoriali in danno dei dipendenti, questi ultimi hanno due debitori da aggredire per veder realizzati i propri crediti.
E cosa avviene se il datore di lavoro cedente applica un contratto collettivo differente rispetto a quello del cessionario? Qual è la disciplina applicabile?
La risposta a questa situazione, tutt’altro che rara, si trova sempre nell’art. 2112 del codice civile in base al quale il cessionario è obbligato ad applicare ai dipendenti ceduti gli stessi trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla data del trasferimento e sino alla loro scadenza. E ciò salvo che questi siano sostituiti da altri contratti collettivi dello stesso livello applicabili presso l’azienda del cessionario. In concreto, può quindi accadere che la contrattazione collettiva successiva possa derogare, pure in senso peggiorativo, le condizioni previste dalla precedente. Normalmente, comunque, per evitare disomogeneità, per esempio conflitti interni derivanti dalla coesistenza presso la stessa azienda di dipendenti con differenti trattamenti collettivi, la materia della disciplina collettiva applicabile è oggetto di appositi accordi sindacali. Sono i cosiddetti contratti di armonizzazione con i quali i rappresentati datoriali e quelli dei lavoratori definiscono caso per caso tempi, modalità e contenuti della transizione.
Un lavoratore può essere licenziato in conseguenza di un trasferimento d’azienda?
Assolutamente no. Almeno a condizione che non sia un cosiddetto dirigente apicale. Il trasferimento d’azienda, infatti, non costituisce per operai, impiegati, quadri e “minidirigenti” un giustificato motivo di licenziamento. Più precisamente, un datore di lavoro non può licenziare un proprio dipendente sostenendo che la ragione risieda in un’operazione di cessione, fusione, incorporazione. Il provvedimento sarebbe tout court illegittimo. Questo non vuol dire, tuttavia, che non possa essere intimato un licenziamento fondato su altri motivi, sia attinenti alla sfera soggettiva del lavoratore, sia giustificati da fattori oggettivi, quali le paradigmatiche esigenze tecnico-produttive.
Pare di capire che questa disciplina sostanzialmente garantista non sia integralmente applicabile anche ai dirigenti.
Esattamente. Come noto, infatti, il dirigente, almeno quello apicale rientrante nei più significativi livelli direttivi (preposto alla direzione unica, a quella generale, etc.) appartiene ad una categoria professionale per la quale è ancora ipotizzabile il cosiddetto recesso ad nutum, con la conseguenza che, per giurisprudenza maggioritaria, la legittimità e la liceità del licenziamento di un alto dirigente non sono influenzate dal fatto che il provvedimento espulsivo sia intervenuto in occasione di un trasferimento d’azienda.
Va comunque detto che nei contratti collettivi dirigenziali sono sovente previste norme comunque tutelanti per i dirigenti. Soprattutto dove vengono pattiziamente configurate fattispecie di dimissioni qualificate in presenza di operazioni consistenti per l’appunto nel trasferimento di proprietà dell’azienda. Ne consegue che il dirigente, le cui condizioni di lavoro possano potenzialmente mutare e divenire per lo stesso pregiudizievoli, in un periodo predeterminato successivo al trasferimento d’azienda può rassegnare le proprie dimissioni con il diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, equiparandosi cosi l’ipotesi a quella, tradizionale, delle dimissioni per giusta causa. Al dirigente viene, dunque, solitamente attribuito un momento di riflessione per una personale valutazione circa l’opportunità di continuare in un rapporto di lavoro che, avendo carattere intimamente fiduciario, può ben essere intaccato da un cambiamento della proprietà o di una parte significativa della stessa.
Concludendo, quali sono i consigli da dare ad un dirigente di fronte ad operazioni di mutamento della componente datoriale?
Il dirigente deve perseguire, nel corso di tutta la sua storia professionale, la strada della personalizzazione del proprio contratto di lavoro. Deve cercare, in altre parole, di regolamentare preventivamente e quanto più dettagliatamente possibile tutti gli aspetti connessi al verificarsi di situazioni imprevedibili come la cessione dell’azienda per cui lavora.
Per esempio, sarà utile definire in senso migliorativo le proprie condizioni d’uscita predeterminandone modalità, tempi e corrispettivi con riferimento alle varie ipotesi giuridiche esistenti (trasferimento dell’azienda, mutamento del pacchetto azionario di controllo, variazione del ruolo specifico). Consiglierei, anche, di raccordare la disciplina rilevante in tali situazioni con le altre disposizioni contrattuali spesso rinvenibili nei rapporti di lavoro dirigenziali quali i patti di stabilità, quelli di non concorrenza, per non parlare delle clausole prettamente retributive, tra cui in primo luogo ricordo tutte le forme di compenso variabile (stock options, bonus legati ad obiettivi, ecc.).
Insomma, l’importante è che dirigente ed azienda sappiano subito cosa potrà accadere, nel bene o nel male, al proprio rapporto di lavoro, evitando inutili contenziosi, gravosi a tutti i livelli. La trasparenza e la personalizzazione contrattuale è, infatti, la pre-condizione per gestire armoniosamente sia la vita di un rapporto di lavoro sia il suo, spesso naturale ed inevitabile, spirare.